cosa succede in città / IL PH DI SIENA

di Fausto Jannaccone

 

Ore 12.00 in punto mi presento alla galleria di Francesca Sani, in mano due birre -le piace molto la birra e questa di lei è una delle poche cose che conosco da poter mettere la mano sul fuoco-, sperando così di metterla a proprio agio nell’aprirmisi, dato che mi aveva confessato una scarsa attitudine a riguardo.
Il fondo dove qualche mese fa ha aperto la sua galleria di Fotografia d’Arte è un fondo fortunato, magico, precedentemente vi si trovava una libreria di libri usati: ogni libreria, quale più quale meno, è pur sempre un luogo magico, al di là degli stereotipi. Io la vedo come un porto, un enorme porto dove scendendo lungo un’interminabile banchina scorriamo le navi, fin quando non ci lasciamo convincere da una di esse ad imbarcarci per il prossimo viaggio verso orizzonti sconosciuti; credo in effetti che la mia visione sia condizionata da Moby Dick, per l’appunto.
Quindi se una libreria è magica pensate una libreria di libri usati, ove ogni nave prima di voi ha avuto altri capitani a condurla, con la sua storia ed il suo amore, o odio, o insofferenza, verso lo scafo su cui si trovava, magari maltrattandolo oppure adorandolo; la magia si eleva al quadrato.
Adesso l’incombenza magica tocca a Francesca, e dopo la letteratura credo l’altro grande mezzo per un viaggio (mentale – ma se possibile ancor più libero) sia la fotografia: ogni scatto stampato può esser di volta in volta una macchina del tempo o un teletrasporto per paesaggi lontani; può raccontarci storie di persone lontane e diverse da noi, cui ci approcciamo basandoci sul visibile, facendo poi appello alla nostra capacità immaginativa per supporre cosa succeda dopo, intorno e dietro quella persona.
La Foto d’Artista assume poi un’ulteriore capacità narrativa, contendo in sé oltre l’oggetto fotografato anche il linguaggio narrativo dell’artista, il proprio lessico, e quindi le ‘parole’ scelte ogni volta per parlarci.

Francesca, partiamo dalle basi: che cosa vuol dire PHneutro?
Tutto il materiale a contatto con la stampa fotografica deve essere ph neutro, quindi acid free. Anche le nostre mani, che ovviamente hanno un loro ph e non sono quindi neutre, sono dannose per la fotografia. I danni posso non essere immediatamente visibili, ma con il tempo la fotografia si ingiallirà nel punto in cui è entrata in contatto con un materiale non ph neutro.

Da dove nasce la simbiosi tra Francesca Sani e la Fotografia?
Nasce all’università, iscritta a Storia dell’arte, ho seguito un corso sulla storia e tecniche fotografiche. Finita l’università sono andata subito a Milano a lavorare per la prima galleria d’arte italiana che si occupasse solamente di fotografia
Per approdare poi a Pietrasanta, dove prende corpo quello che adesso stai facendo: raccontaci la genesi di questo progetto
Ph Neutro nasce a Verona, per poi aprire una seconda sede a Pietrasanta.
Nel 2016, tornata da un periodo a New York, sono approdata alla sede di Pietrasanta. Conoscevo i proprietari di Ph Neutro da diversi anni e prima di iniziare a collaborare lavorativamente, avevo comprato alcune fotografie da loro. Quindi si sono rivolti a me avendo bisogno di una persona per la sede di Pietrasanta. Così è iniziato il nostro rapporto lavorativo.
A inizio 2017 gli ho proposto di aprire insieme una nuova sede e la scelta è ricaduta su Siena essendo io senese e legata alla mia città. Così è nata PH Neutro Siena.
Torneremo poi anche su Siena, ma prima una piccola parentesi di approfondimento sul tuo settore: in primo luogo ti chiedo quale sia lo stato dell’arte della Fotografia, ovvero percezione, ruolo e mercato della Fotografia d’Arte al giorno d’oggi?
Il mercato e l’interesse sulla fotografia artistica sono in costante crescita, ce lo dimostrano i risultati delle aste, soprattutto quelle mondiali.
L’Italia purtroppo anche in questo campo è un passo indietro rispetto a molti altri paesi, comunque anche qua l’interesse sta crescendo. Basta guardare quante mostre di fotografia vengono organizzate da Nord a Sud in musei e fondazioni italiane.
Per citare alcune delle mostre che negli ultimi anni hanno fatto parlare di sè ti trovi più affine ad una tipologia di mostra macro-evento come quella su McCurry, passata anche da Siena e capace di influenzare il gusto degli appassionati di fotografia, o invece sei più incline ad apprezzare esposizioni come ad esempio Cartier-Bresson all’Ara Pacis nel 2015?
Non mi piace puntare il dito su nessun tipo di mostra. Eventi come quello di McCurry creano grandi numeri e fanno parlare. Quindi vanno bene per lo scopo che vogliono raggiungere. Ci sono mostre che magari fanno parlare di meno ma che hanno alle spalle progetti accurati e molto interessanti. Per quanto riguarda il mondo della fotografia non ci dimentichiamo poi che in Italia abbiamo festival molto importanti che stanno crescendo ogni anno di più, come quello di Reggio Emilia e il Photolux a Lucca
E riguardo a ‘La Vertigine del Volto’, invece, cosa ci puoi dire?
La mostra la Vertigine del Volto (di Carlotta Bertelli e Gianluca Guaitoli, fino al 7 gennaio 2018) nasce dal lavoro di due giovani artisti nei quali credo molto.
Mi sono imbattuta in loro per caso e sono stata travolta dalla bellezza e profondità delle loro opere. Ho quindi deciso di iniziare una collaborazione e così è nata l’idea della mostra e la possibilità di farsi realizzare dei ritratti in galleria
Qual’e il lavoro che caratterizza la loro produzione ?
Carlotta e Gianluca vengono da due percorsi differenti. Lei è fotografa di moda e lightpainter, lui parrucchiere per fotografie di moda. Dopo essersi incontrati e innamorati dal 2015 hanno deciso di iniziare a lavorare insieme a un progetto comune che unisse le loro due personalità artistiche. Nasce così la loro serie di ritratti realizzati con la tecnica del light painting e stampati su carta di gelso giapponese.
Lavorando esclusivamente sul ritratto, frontale, quasi sempre limitato al volto, finiamo per esser preda dello sguardo: si sovrappone così al nostro approcciarsi all’opera da un piano meramente estetico una possibilità di indagine psicologica. Mi sembra diventare quindi questa mostra anche un ‘catalogo di anime’, impressione favorita anche dalla tecnica di stampa, che perdendo in definizione offre una maggiore possibilità di immaginazione e di vitalità. È corretta questa mia sensazione?
Assolutamente corretta. Questi ritratti vengono realizzati al buio, nel totale silenzio. È in questa situazione che Carlotta muove le sue torce, quindi la persona ritratta si trova in una situazione insolita, nel non sapere da dove e come arriverà la luce. Ciò tira fuori nelle persone reazioni e aspetti dell’anima sconosciuti.
Torniamo adesso come promesso a Siena. La tua storia familiare, percorso d’istruzione e contesto di provenienza ti offrono ‘di dafault’ una capacità diagnostica delle condizioni della città in cui vivi e lavori, da un punto di vista artistico e culturale: qual’è secondo te lo stato di salute di Siena sotto questo aspetto?
Diciamo che si potrebbe fare molto di più. Come ci dicevano i professori quando eravamo a scuola? Il ragazzo ha le potenzialità ma non si impegna. Ecco mettiamola così, Siena si potrebbe impegnare un po’ di più.
Visto che siamo a Natale, oltre che in prossimità di un ricambio amministrativo, cosa auguri, chiedi, o meglio cosa auspichi possa portare il futuro prossimo a questo angolino di mondo? Ovviamente non mi aspetto come risposta “la pace nel mondo”, ma chiedo quale possa essere la tua ricetta, la strada secondo te da seguire per “impegnarsi un po di più”?
Se intendi l’angolino di mondo che è Siena mi auspico che le prossime elezioni ci portino una giunta comunale e soprattutto un’assessore alla cultura con il peso specifico che si merita la nostra città. Un’amministrazione coraggiosa e “illuminata”, che sappia mettere da parte la Zumba e guardare alle cose che veramente farebbero bene alla città. Quanto tempo è che non entri al Museo Civico? Io era molto tempo. Un po’ di mesi fa sono andata, la situazione era quella di opere esposte con una pessima luce, la polvere era alta e i cartellini che indicavano le opere erano o mancanti o storti… questo è il biglietto da visita che dà Siena. Facciamo la ‘smart city’ ma poi in uno dei principali musei della città, all’interno del Palazzo Pubblico, non ci curiamo neanche di rimettere i cartellini mancanti.
Per chiudere ti propongo un mio pensiero: nel giorno dell’inaugurazione de “La Vertigine del Volto”, venuto via dalla tua galleria, sono passato davanti ad un altro spazio espositivo nelle vicinanze, dove aveva avuto luogo un’inaugurazione il giorno precedente, per poi recarmi a visitarne un secondo, dove, per quanto non mi sia trattenuto, oltre alle opere di altre contemporanea esposte, durante la serata avrebbero tenuto la presentazione un libro. Un inaspettato fermento per una città di solito culturalmente pigra, se non statica.
Quindi dico, per quanto un’amministrazione sia in effetti espressione di una società, non possiamo noi, intesi come addetti, appassionati, cittadini in generale, esser il motore di un cambiamento: provare a sopperire almeno in parte, per quanto possibile, alle mancanze ed inadempienze delle gestioni inadeguate, cui siamo ormai ahinoi costretti ad assistere quotidianamente?
Siamo assolutamente noi il motore. Io ho deciso di tornare a Siena dopo anni che non ci vivevo più. L’ho fatto perché sono profondamente legata alla mia città, potevo restare fuori, ma credo che la potenzialità che ha la nostra città non abbia pari in Italia e non voglio credere a tutti quelli che mi hanno detto che era una follia aprire una galleria d’arte qua. Le città non le fanno solo le amministrazioni, ma soprattutto i cittadini.
Certo le amministrazioni devono essere capaci a sostenere e aiutare i cittadini volenterosi che si mettono in gioco cercando di fare qualcosa di livello per tutta la città

LA RAGAZZA DEI DUE MONDI (prima puntata) – di Nabila Bassiti

“Ciao a tutti mi chiamo Nabila Bassiti e sono nata a Grosseto il 05/01/94 da genitori marocchini. Ho trascorso i primi anni della mia vita a Pari, piccolo borgo della Maremma , per poi trasferirmi a Civitella Marittima dove ho frequentato elementari e medie. Mi sono diplomata presso l’istituto tecnico “Sallustio Bandini” a Siena ed infine ho conseguito la Laurea presso l’Università di Scienze Politiche e Internazionali.
Sono una ragazza molto determinata nella vita e mi pongo sempre grandi obbiettivi: per questo che ho deciso di intraprendere questo percorso di studi, per cercare di cambiare, nel mio piccolo, il mondo”

Ogni migrante  porta con sé la sua storia, sempre difficile, fatta di addii e di rinascita. Per raccontarvi la mia, vorrei iniziare partendo dalla storia dei miei  genitori e del perchè abbiano deciso di abbandonare le loro vite e le loro famiglie.

Mio padre all’età di 23 anni decise di intraprendere questa nuova esperienza , per cercare ciò che tutti noi cerchiamo, ovvero una vita dignitosa e serena.  Arrivato in Italia e trovata la stabilità economica mia madre decise di raggiungerlo, decisione molto sofferta per una donna nata e cresciuta  a Casablanca che poi si è dovuta stabilizzare in un piccolo paesino della Maremma.
Dopo qualche anno al trasferimento decisero di allargare la famiglia nella speranza che un giorno potessero poi tornare al paese di origine.  Nel 1994 nacqui io terza di quattro figli.

Essere figli di migranti ha una duplice sfaccettatura, sopratutto  se oltre ad essere di un’altra cultura sei anche di un’altra religione.
I primi anni delle elementari ricordo ancora le volte in cui tornavo a casa piangendo da mia madre non capendo perchè a mensa non volessero darmi da mangiare la pasta con lo speck, non accettavo di essere diversa.
Crescendo però ho appreso che ho qualcosa che non tutti hanno: la fortuna di essere cresciuta con dei duplici valori e una duplice cultura, cosa che d’altro canto spesso va a scontrasi se non riesci a trovare un compromesso interiore .

Questo compromesso però è molto difficile da trovare poichè non è semplice vivere in una società e allo stesso tempo mantenere la cultura di un altro paese. Gli anni dell’adolescenza sono stati anni molto sofferti, perchè per una ragazza marocchina era proibito andare a ballare o andare alle feste; quindi mi ritrovavo a passare i sabati sera a casa quando invece le mie amiche andavano in discoteca.
Quanti pianti mi sono fatta, e molto spesso mi sono chiesta perchè i miei avessero questa mentalità ottusa, però con il passar degli anni ho capito che ogni tappa ha un età e bruciare le tappe non è molto costruttivo. Si è vero io in quegli anni mi sono disperata ma tornassi indietro vorrei che i miei genitori mi proibissero ancora di andare a ballare all’età di 14 anni .

 

Per quanto riguarda il resto, non mi sono mai sentita inferiore o al disotto di nessuno, anzi forse mi sono sentita sempre un gradino più in alto degli altri, perché vivere con due culture così diverse non è che una ricchezza.

Molti chiedono se mi sento più italiana o marocchina e a questa domanda rispondo sempre che mi sento entrambe… l’Italia è la mia patria, la mia casa, il mio mondo, mentre il Marocco è la mia origine .

RAGAZZO DELL’EUROPA – di Viola Lapisti

“Ognuno ha il proprio passato chiuso dentro di sé
come le pagine di un libro imparato a memoria
di cui gli amici possono solo leggere il titolo”
 Virginia Woolf

“Perché la follia, in fondo, è solo quel profondo bisogno che abbiamo di riconciliare le nostre notti coi nostri giorni”
Giacomo Francini

In una piccola città prima o dopo ci incontriamo tutti. Io incontrai questo ragazzo anni orsono, ormai. Mi stupiva quell’aria perennemente contesa tra la fuga e l’assalto. Aveva talento, tutt’ora lo ha conservato, scriveva poesie, amava la musica, l’arte e la letteratura e si appassionava con l’innocenza di un bambino a qualsiasi cambiamento o novità che molto spesso lui solo percepiva tra le mura di una città immobile. Poi siamo cresciuti, abbiamo tradito la nostra innocenza per una razionalità troppo spesso carica di cinismo, ma lui, Giacomo Francini, è riuscito a conservare del candore dell’infanzia una sorta di purezza, motore vivo che lo ha spinto ad uscire fuori nel mondo ed a raccogliere insieme una progressione di esperienze e di esperimenti che lo hanno portato, oggi, ad inaugurare una nuova fase della sua vita con l’uscita di Psichedèlia, il suo primo album da solista.

Lo abbiamo visto leader del gruppo beat Hashmir, vestire i panni di Velvet con le sue fotografie, scrittore del romanzo “Sette passi sul ventre andaluso” ed autore di due raccolte di poesie “Oltre il Sorriso di un Clown” ed “Acque nere”.

Da circa un anno, avendo alle spalle diversi trascorsi come cantautore, ha deciso di intraprendere la carriera solista con Mescala, lavorando alla produzione di una sua poetica composta.

Lo scorso 28 giugno è uscito il primo singolo dell’album, “La Verità” un pezzo dal sapore retrò, un po’ biografico ma anche sperimentale, commistione di sounds anni ’60 e ’70 in cui si percepisce l’indagine esperienziale di uno stile indie pop in via di definizione.

Psichedèlia, in uscita a novembre, è dunque l’album che potremo definire d’esordio per Mescala, ma chi lo conosce invece, sa che non è del tutto vero. I suoi testi hanno accompagnato un’intera generazione interrotta tra le mura di Siena, che si passava i suoi brani con le chiavette usb sull’mp3 o su my space, una generazione che ha imparato a memoria molte delle sue canzoni perché voce di quella continua tensione verso l’evasione da una piccola città di provincia e di un mondo in continuo movimento al di là di quelle mura, specchio a volte meschino e crudele della nostalgia del ritorno. Mescala non ha mai smesso di scrivere, ed oggi vediamo portare a compimento la sua opera prima, ma che definirei “di maturità” personale ed artistica. Mescala mette in scena con Psichedèlia un’educazione sentimentale, costruitasi in un tempo immediato ed infinito tra Siena, Londra ed un paesaggio stato d’animo che a volte è la nebbia inglese, a volte un temporale estivo in una campagna senese, altre volte un incontro fugace sul lungo Tevere. Mescala prova a squarciare il velo di Maya rendendoci la fine dell’innocenza, ci dà la chiave per capire ciò che siamo diventati “pupazzi di seta” in bilico tra ciò che tentiamo di mostrare “per difendere una vanità che non ti nutre né ti disseta” e le nostre umili e nude debolezze. Ci fa riflettere su dove stiamo credendo di andare, “invece di correre” verso la libertà. La libertà di Mescala non è una fuga, ma il tempo. Per Mescala essere liberi è interpretare il proprio tempo contingente ed interiore. È terminato quel tempo dell’innocenza, appunto, in cui l’illusione di inventarsi infinite vite diverse, ed al di fuori di quella di partenza, ci faceva credere di dominare noi stessi, i sentimenti e la nostra propria determinazione di individui.  “Il tempo è una bugia per chi è romantico”, canta Giacomo.

Questa redazione, sensibile nelle proprie linee programmatiche alla manifestazione del talento ed orgogliosa di quello che si manifesta in particolare dalle radici controverse della realtà senese, ha così deciso di rivolgere a Giacomo Francini, in arte Mescala, alcune domande. A voi dunque, e di seguito, quello che è venuto fuori da un paio di chiacchierate notturne sull’interrete con l’autore di Psichedèlia.

Cosa significa per Mescala vivere il tempo, capirlo e riuscire a farlo proprio.

Non mi ricordo chi – diversi anni fa – ma qualcuno mi disse che la vita si divide in fasi di 7 anni l’una, anno più anno meno. Bene, gli ultimi sette per me sono stati piuttosto turbolenti. Non è successo niente di particolare o terribile o irreparabile, ma sono stati anni che mi hanno messo al muro. Pensavo che il futuro fosse lontano, lontanissimo, in realtà mi sono accorto – di colpo – che c’ero di già, nel futuro, e con tutti e due i piedi. Non è stata una sensazione piacevole, visto che non ho un lavoro fisso, ho i soldi che ho e non ho fondamentalmente un posto nell’universo (cit: il Taurus). Ma se è vero che – e prendo in prestito una tua frase: “la libertà di Mescala non è fuga, ma il tempo”, frase che sottoscrivo in pieno – è anche vero che avendone accettato lo scorrere mi sono lasciato alle spalle le ansie che accompagnavano quello scorrere e ho potuto resettare tutto e ripartire da capo. Per chiudere, non so se sono riuscito a farlo totalmente mio – il tempo – ma di sicuro l’ho reso più relativo e meno oggettivo, quindi, sì, leggermente più mio.

Quattordici brani per un titolo, “Psichedèlia” che rievoca una precisa tendenza culturale, artistica e musicale degli anni ’60 e ‘70. Dai Pink Floyd ai Jefferson Airplane, dai Grateful Dead ed anche ai Beatles, ma anche dai nostrani le Orme ai The Rokes a I Giganti. E ascoltando Psichedèlia non si fa fatica ad intuire che il nome dell’album sia un tributo alla corrente artistica, dato che la tua cifra stilistica sembra si collochi sì in una scuola dalle reminescenze battistiane, ma anche tra quella del rock psichedelico anni ’60 e ’70.  È corretto?

Il titolo è una vecchia idea. Ci scrissi un romanzetto una decina di anni fa. Poi è venuta una canzone – un pezzo strumentale -, che con gli Hashmir abbiamo provato, ma mai suonato dal vivo. Il titolo mi piaceva (ah, l’accento è sulla seconda “e” non sulla “i” come nella parola comune) quindi volevo riutilizzarlo in qualche maniera. La mia adolescenza si è dipanata negli anni ’90, e la musica che ascoltavo era più che altro Britpop e roba inglese e americana degli anni ’60/’70 – Beatles, Doors, Sonics, Dylan, Velvet Underground, 13th Floor Elevators. Di italiani ascoltavo poco, Battisti e Litfiba, più che altro. Quindi il disco più che un tributo alla corrente psichedelica in sé, è una spremitura di stili che – sono passati 20 anni maremma cane! – sono pian piano diventati miei.

Mescala nasce, dopo varie esperienze in gruppo, come solista e cantautore nel 2014, anno in cui avevi già alle spalle un romanzo pubblicato e due raccolte di poesie, in cosa differisce il tuo essere cantautore rispetto all’essere autore e scrittore per la pagina stampata?

Come solista in realtà è roba fresca, dall’inizio di quest’anno. Dopo gli Hashmir l’idea/Mescala era comunque quella di un gruppo, magari con membri non troppo fissi, ma non mi sentivo propriamente solo. Poi le cose sono andate a singhiozzi e quindi dopo due anni ho deciso di provare a mettermi in gioco da solo. Comunque, la differenza sostanziale è tutta nel modo in cui cerco di esprimermi. Ovvero: nei libri – soprattutto i romanzi – puoi prendere il tuo tempo, sviluppare l’idea, caratterizzare i personaggi (la poesia la lascio da parte, non riesco neanche più a leggerne mezza), nella musica invece devi riassumere, parafrasare, sintetizzare al massimo. Con gli Hashmir scrivevo in inglese e i testi erano più semplici e meno sensati. Scrivendo in italiano ho dovuto imparare ad ascoltarmi più a fondo per riuscire a creare dei quadretti che rappresentino al meglio i miei stati d’animo. Una cosa è certa: è la miglior specie di autoanalisi che esista!

I personaggi di Psichedèlia ti accompagnano nelle storie che racconti spesso in prima persona. Sono donne soprattutto, donne fatali, principesse, madri, amori rubati ed amori destinati. Ci sono però anche i “cani randagi” e il gruppo degli amici “i bambini cattivi”. Un po’ The Dubliners. Chi sono davvero i tuoi personaggi?

Le donne mi piacciono, molto. E più che invecchio più che mi piacciono. Perchè magari adesso mi ritrovo in un mondo notturno popolato di cittine di 20 anni che sono lontane anni luce dal mio modo di vivere e pensare e che quindi mi aprono uno spiraglio su ciò che ero. Intendo dire, vivo e penso come quando avevo 20 anni, ma lo faccio in modo totalmente diverso, più distaccato. Non oso dire maturo, perché la maturità è una stronzata totale. Ma senza dubbio ragiono attraverso l’esperienza. È una cosa buffa. I personaggi ovviamente sono sia presi dalla realtà che vivo, sia dalle sfumature della mia personalità. Come tutti, posso essere in molti modi e questi molti modi cerco di trasformarli in mondi di musica e parole. I bambini cattivi e i cani randagi sono i mondi che preferisco. Perché ogni tanto cerco di portarmi su una retta via di coscienza, ma passano 5 giorni e poi dopo una nottata un po’ più entusiasta mi tocca mandare così tanti messaggi di scuse che ormai neanche mi risponde più nessuno. Ognuno è quel che è, no?

Il Brano “Doriangray” è una featuring con un altro artista e musicista senese, Zatarra. Ci racconti un po’ di come è nata questa affinità elettiva?

Zatarra è un grande! Guarda, sono sincero: di rap o hip hop non so gran chè. Ma lui è stato capace di portare in città uno stile di musica e vita che non è propriamente nostro. Ha messo su una scena suburbana e molti ragazzi lo hanno seguito. Ci sarebbe veramente tanto da imparare da una persona che vive Siena con freschezza e voglia di condividere, che si muove e cerca di creare spazi e occasioni anziché limitarsi a brontolare sui social, come fanno molti. E l’entusiasmo che ci mette è ciò che mi ha spinto a chiedergli di collaborare con me per Doriangray. Volevo che il pezzo si troncasse in due, come se una voce profonda, interiore, uscisse allo scoperto per accusare violentemente il protagonista del pezzo, che è una persona di mezza età incapace di affrontare le maschere che ha creato e di cui è divenuto prigioniero. Questo è un po’ quello che fa il rap, no? E per questo ho pensato a Zat. Parlando, più che cantando, spezzi l’armonia e il messaggio che arriva è più crudo, più grezzo. Doriangray è un pezzo grezzo e Zatarra è stato davvero in gamba. È venuto a casa mia, si è preso una birra e mezz’ora di tempo, e poi ha scritto e inciso il suo pezzo. Devastante. E poi siamo cresciuti nello stesso quartiere a Palazzo Diavoli, quindi c’è anche quel piccolo legame in più – l’origine, no? – che non guasta mai quando si tratta di tirare fuori qualcosa da dentro.

Mescala e lo specchio. Lo specchio è un leitmotiv che recuperi in molti dei brani dell’album. Lo stesso Doriangray ha in sé il tema dello specchio. Cosa dice lo specchio a Mescala?

Una delle canzoni che preferivo dei vecchi Hashmir si intitolava per l’appunto The Mirror. Lo specchio è un’idea che mi assilla. Chiunque, anche la persona meno vanesia, egotista, narcisista del mondo si trova comunque almeno una volta nella vita impigliata nell’idea di sé che proietta sugli altri. È inevitabile. Come il caffè a colazione. E quando mi osservo non posso fare a meno di giudicarmi e da questo giudizio imparare cose nuove. Su di me e sul mio modo di percepire il mondo. Quindi lo specchio è tutto ciò a cui ruota attorno il nostro conoscerci, da quando ci poniamo la prima domanda in poi. È fondamentale.

Nella letteratura di Mescala ci sono molti altri brani inediti che non hai inserito all’interno di Psichedèlia. Questo mi fa pensare che questo album, più che una raccolta di brani sia un concept, fatto che giustificherebbe, oltre agli inediti in super anteprima che hai inserito, la scelta di alcuni brani piuttosto che di altri. Come nasce allora Psichedèlia? Cosa rappresenta per Mescala?

Ha un senso. C’erano canzoni migliori, ma le ho lasciate fuori perché non filavano. Non andavano a braccetto con quelle che ritenevo fondamentali per questo disco. Ci deve essere sempre un filo conduttore, altrimenti viene fuori una compilation. E anche se magari nessuno se ne rende conto, io so che un filo c’è e so che ascoltando il disco un paio di volte questo filo esce fuori. Ho diviso l’album in due tronchi. La prima parte è più leggera, armonica, estiva. La seconda parte, che inizia con Cani Randagi, è più suburbana, scura e malinconica. È tutta la stessa roba, bada bene, solo che ho cercato suoni più metallici e digitali, meno “veri”. È un po’ come quando vai a scuola e anche se rimani nella stessa aula, ogni mattina ogni ora o due o tre cambi materia e professore e quindi impostazione mentale. Ecco, l’avevo immaginato un po’ così, il disco: un neurone per la prima parte, uno – meno sobrio – per la seconda.

Mescala è l’alter ego di Giacomo Francini? Rispondi sinceramente.

Indubbiamente. Ma potrebbe anche essere il contrario, te lo dirò fra qualche anno.

Poco fa ho definito Psichedèlia un’educazione sentimentale. E l’educazione, anche quella dei sentimenti, si inizia ad imparare da piccoli, all’interno delle proprie mura domestiche. Mescala, come Giacomo, sono figli di una madre amorevole, ma esclusiva, di una “Dolce dama altera” – un altro bellissimo tuo pezzo dedicato a Siena – “che odi e sbandieri”, “che ami e che respiri”. Credi che il tuo essere un artista figlio di questa realtà rispecchi questo ossimoro? Pensi che ti abbia limitato, ti stia limitando, o che, come una madre severa e possessiva, ti abbia tolto molto ma anche impartito “un’educazione” privilegiata?

Qui apri un mondo. Diciamo solo che nessuno può insegnare a nessun altro come vivere la propria città. Io amo Siena, l’ho sempre amata e come ogni amore che si rispetti detesto l’influenza che ogni tanto – o ogni spesso – ha su di me. A chi è contradaiolo Siena dona un cordone ombelicale di acciaio, non lo puoi spezzare. Anche se magari sai che la tua vita altrove sarebbe forse non migliore ma certamente più “tua”. Si sa quello che viene concesso a chi cerca di fare musica, non c’è bisogno che elenchi i punti di una situazione che ormai conosciamo tutti molto bene. Quindi ti dico solo che sono felice di essere nato in un contesto unico, che sono stato infelice di farne parte in un determinato periodo della mia vita, che sono stato bene a Londra e che ho considerato l’esser tornato un errore per molti anni. Ma adesso ho capito che una scelta inconscia è stata fatta, molto prima che ne capissi il senso e che oggi come oggi sono contento di quel che ho, perché so che con persone come Zatarra, Masotti, Cafarelli – voi di Wunderbar, tutti quei bordelli che lavorano nei locali, nella fotografia, nei loro piccoli negozi e che lo fanno non solo per i soldi ma soprattutto per il piacere di comunicare e portare qualcosa alla comunità – persone piene di idee ed entusiasmo che sanno leggere il mondo amando comunque a fondo la propria terra, questa città supererà il periodo della giacca e cravatta e tornerà ad essere una culla in fermento, come lo era ai tempi che tanto rimpiangiamo.

 

 

Per un ascolto in anteprima di alcuni brani, potete trovare il primo EP mescaliano “Bootleg” disponible su
Spotify https://open.spotify.com/artist/7maHfyKlSfFzVJEiIYfvcJ
Canale Youtube di Mescala https://www.youtube.com/channel/UC-OJWGw1elVWYzt5o7m_ZnA
Instagram https://www.instagram.com/mescala_jf/  
Facebook https://www.facebook.com/MescalaSiena

 

Bibliografia dell’Autore

  • “Sette Passi sul ventre andaluso” di Giacomo Francini Il Filo 2007;
  • “Oltre il Sorriso di un Clown” di Giacomo Francini 2006
  • “Acque Nere” di Giacomo Francini Ed. Aletti Editore.

www.alettieditore.it
www.gruppoalbatros.eu

INSIDE FINSBURY PARK – di Federica Corbelli

La routine è sempre la stessa. Ti svegli con un messaggio di un amico che ti dice che ha letto quello che è successo e ti chiede se stai bene. Ti affretti ad aprire la pagina web della BBC o del Guardian, con il cuore in gola, pensando ‘adesso cosa è successo, dove è successo, quante vittime ci sono, dove sono i miei amici, come stanno?’.

Questa mattina è andata così. Mi ha scritto un’amica da Siena, chiedendomi quanto sono vicina dalla stazione di Finsbury Park, dove c’era stato un attacco.
Ho aperto la pagina della BBC in uno stato di shock totale, la conferma di un attacco terroristico contro musulmani che stavano uscendo da una moschea. Ieri sera ho sentito delle sirene spiegate, ma non più del solito, a mezzanotte probabilmente già dormivo. Ho guardato la mappa dell’attacco, la strada che percorro tutti i giorni da casa alla metro.
Finsbury park non è un quartiere a maggioranza musulmana, c’è una grande comunità musulmana, e in generale di migranti medio-orientali, ma non solo. È un quartiere ben collegato con il centro, relativamente economico, non particolarmente bello (ricordo ancora la faccia che ha fatto mia mamma quando mi ha aiutato a fare il trasloco) – la ‘gentrification’ è ancora abbastanza lontana, quindi accoglie tutti, migranti europei e non, studenti, working-class inglese. Un articolo del Guardian oggi definisce il quartiere ‘One of London’s most diverse neighbourhoodshttps://www.theguardian.com/uk-news/2017/jun/19/scene-of-the-finsbury-park-van-attack-one-of-londons-most-diverse-neighbourhoods
Ed è assolutamente vero. È un quartiere ‘rough around the edges’ ma pieno di personalità. Un quartiere che si colora di rosso quando gioca l’Arsenal e tutti i pub sono presi d’assalto.
Un quartiere in cui è facile vedere gente dall’aspetto strano, ma nel quale non mi sono mai sentita in pericolo, la sera tardi, la notte, la mattina presto. È un quartiere che rappresenta Londra al meglio, Londra come mix di culture e religioni. Non voglio dipingerlo come il quartiere migliore in assoluto, non è un luogo idilliaco in cui tutti vivono in pace, e mi è capitato che un barbone mi urlasse contro ‘Fuck you, yeah, I’m talking to you! FUCK YOU!!!’, ma è il quartiere che mi ospita, il quartiere a cui sono affezionata, è il mio quartiere.
Questa mattina l’atmosfera era surreale, Seven Sisters road (che collega Holloway Road, una delle strade principali di Londra nord, alla stazione di Finsbury Park) di solito è trafficatissima di lunedì mattina, oggi il traffico era chiuso, per raggiungere la stazione si poteva solo andare a piedi, quindi mi sono unita ai pedoni che nel silenzio più totale si dirigevano alla stazione. Lungo la strada principale solo polizia e giornalisti.
Una bambina che mi camminava di fianco mi si è avvicinata e con un tono da adulta mi ha detto ‘ci sono dei feriti gravi sai?’, ho saputo rispondere solo con un ‘lo so, è triste vero?’.
Sono passate ore da quello che è successo e continuo a vivere in uno stato di shock, mi faccio domande alle quali non so rispondere e soprattutto mi chiedo ‘e ora?’.

Forse è semplice chiudere con un messaggio di ottimismo e speranza, dicendo che Londra supererà anche questo, quindi lascio semplicemente parlare la frase del giorno, scritta dall’azienda dei trasporti di Londra:

‘Tough times don’t last. Tough people do. Stick together all of us’.

#TORNAACASALASSIE – di Marco Brizzi

Ebbene si, sono di nuovo sulle lastre.
Qualcuno dirà che dopo tante rotture di scatole, discorsi, sfoghi, potevo anche starmene fuori un po’ di più. Qualcuno mi ha detto che secondo lui sono tornato da sconfitto… da cosa ancora non l’ho capito.
Sono partito volutamente senza un soldo, senza un lavoro e senza sapere l’inglese. Volevo sperimentarmi, cercare di capire alcune cose: non del mondo, di me, che già mi pare abbastanza.
Questa ricerca mi ha portato lontano dalla spiaggia e sono andato a fare quel giro di boa di cui ho già parlato. Una volta arrivato alla boa mi sono ritrovato inevitabilmente solo. Non ci sono stato molto è vero, ma avendo deciso in partenza di sperimentarmi, ho vissuto tutto al limite e con molta intensità.
In due mesi ho cambiato due lavori, ho mangiato caramelle a pranzo e cena per dieci giorni aspettando il primo stipendio, ho rischiato di dormire in strada. Dopo un breve periodo di panico, inaspettatamente, mi sono ritrovato ad essere parte di quello che stavo vivendo, ho improvvisamente capito che ero presente.
Senza farmi troppe domande e troppi problemi mi sono accorto che stavo parlando una lingua della quale sapevo si e no tre frasi. Ho fatto un colloquio, domandandomi alla fine cosa avessi realmente detto a quello che mi ascoltava; ma è andata bene, evidentemente non ho detto troppe cazzate. Senza forzare troppo il canape, ho trovato una casa, dei nuovi amici, dei piccoli locali che mi hanno fatto compagnia nelle sere in cui scrivevo.
Stavo allegramente nuotando intorno a questa benedetta boa quando all’improvviso mi sono ricordato che la sera, tornato a casa, non avrei potuto accarezzare i miei gatti, andare a casa del mio migliore amico a bere una birra, chiedere in prestito la macchina a mio fratello. La nostalgia è arrivata come un inatteso pugno nello stomaco, che mi ha tolto il fiato. Allora ho dovuto per forza rivolgere lo sguardo a quella spiaggia che tanto odiavo prima di partire. Ho notato cose che sapevo, ma che non mi ero mai detto per paura di rovinare quel poco di tranquillità che avevo. Dopo un’attenta osservazione, senza fare troppi paragoni che sarebbero stati inutili, sono arrivato alla conclusione che ci meritiamo tutto quello che abbiamo seminato negli anni. Qui è tornata in gioco la scoperta di se stessi e mi sono fatto molte domande.
Tutti quei turbamenti erano davvero colpa del luogo in cui ero o erano dovuti a chi questo luogo lo vive? O magari erano dovuti a me?
Ho fatto veramente tutto il possibile per cambiare quello che non mi piaceva? Davvero non c’è rimedio, come spesso ci diciamo tra di noi forse per non prendersi responsabilità? Cosa ho visto da lontano? Ho visto una città dove c’è veramente troppo egoismo, dove abbiamo solo il fiato per giudicare chi abbiamo accanto. Ho visto una città che, dopo il crollo economico,si è accorta di far parte del mondo con tutti i problemi che ne derivano. Ho sentito persone che non si capacitano di come possano esserci cosi tanti furti nelle case, che non capiscono come ci si possa uccidere a quarant’anni. Persone che coltivano il proprio orticello e solo quando non cresce la roba a loro si lamentano della siccità… …a quello accanto al vostro erano anni che non venivano su neanche due patate, ma avendo voi da mangiare, cosa ve ne poteva fregare? Continuiamo ad essere convinti di sfruttare noi il sistema, quando è palesemente il contrario. C’è solidarietà per i terremotati (e ci mancherebbe altro, non mi dovete fraintendere) ma poi non c’è solidarietà se un bimbo non ha i soldi per la mensa scolastica. Siamo i grandi salvatori del mondo ma non capiamo che il mondo si salva iniziando a salvare noi stessi, poi quello accanto e cosi via. Persone che fanno presidi davanti ad un asilo ma non si sono mai visti quando veramente ce ne era bisogno. Ho visto una città vuota di idee, di tolleranza (se non per i ricchi ed i potenti), vuota di entusiasmo, di onestà, di sincerità.
Ho anche appreso che ci sono ancora analfabeti tra noi, nel duemiladiciassette. Ho visto che non mettiamo energia se non per cercare di chi è la colpa, di cosa non importa, l’importante è non fermarsi troppo a ragionare, l’importante è scrivere su facebook che c’è stata una piccola scossa di terremoto. Sisssssignori, si, il terremoto esiste ovunque; smettiamola di sorprenderci per le cose ovvie, ve ne prego.
Ci hanno levato ogni tipo di slancio di personalità, ci hanno spiegato che essere diversi non èuna ricchezza ma una colpa, che non possiamo fare più di questo, che per cambiare le cose dovrebbe….dovrebbe….dovrebbe cosa? Non vi basta tutto quello che già è successo? Non vi basta che chi vi ha ridotto cosi, ora vi ride anche in faccia? Non capisco cosa cazzo aspettate ad uscire di casa ed a smettere di aspettare che accada qualcosa per scriverlo su un qualsiasi social di sto cazzo. Non voglio fare quello che ha capito tutto dalla vita, ho appena iniziato a conoscere quello che vedo allo specchio tutte le mattine. Però mi sento di dire che non posso più vedere la mia città cosi ridotta. Non posso più essere parte di questo campanilismo malato nell’anima, che porta solo a emarginare il “diverso”. Ne ho veramente le palle piene dei vari “non posso”, come faccio?”. Ho conosciuto famiglie partite con i figli piccoli al seguito, per cercare una vita migliore, mi hanno aiutato persone che probabilmente qualche tempo fa avrei scartato come appestate. Non ci siamo solo noi al mondo, non possiamo essere sono una cosa. Non aspettiamo di essere nella merda più completa per poi chiamarci fratelli.
Insomma, credo sia arrivato il momento di provarci per davvero a cambiare le cose, ognuno con le proprie possibilità. Dobbiamo dare una sterzata al nostro maledetto campanilismo da quattro soldi che non ci fa amare quello che abbiamo ma ci fa odiare quello che non siamo. Alzare la testa da quei cellulari e magari vedere che quelle persone che abbiamo davanti sono come noi, spesso inaspettatamente.

Possiamo realmente diventare grandi, continuando a sorridere come facevamo da piccoli.

NELL’UOVO DI PASQUETTA: PICCOLA RIFLESSIONE SUL SENSO DELLA COMUNITA’ – di Fausto Jannaccone

Oggi è il lunedì di Pasquetta. Questo implica il fatto che nei precedenti due giorni abbiamo partecipato ad un momento dell’anno che ci ha investiti tutti: la Santa Pasqua.
Che l’abbiate passata “con-chi-vuoi” o con le vostre famiglie, che siate stati al lavoro o in vacanza, tutti noi ci siamo trovati a doverci confrontare con questo passaggio del calendario che ci ha fatto accopagnare nonne alla messa, comprare uova di cioccolato ai nipoti, dibattere sulla grande disputa etica dell’agnello e messo a sedere a grandi banchetti; quindi credenti, atei, cristiani, ebrei, musulmani, bianchi, neri, rossi o gialli tutti siamo stati coinvolti in questa ritualità.
Anche io naturalmente non sono potuto esimermi da tutto ciò. E trovandomi quindi a ragionarvici sono arrivato ad una conclusione: il male alla fine dei salmi (è proprio il caso di dirlo) non è la relgione in sé per sé, ma l’uso, o meglio l’abuso che ne viene fatto: ovvero quando la religione, una qualsiasi religione diventi pretesto per limitare diritti altrui.
Che si parli di burqa o eutanasia quando in nome di un credo si pretende di imporre a qualcun’altro un costume o una regola, qui nasce l’abuso della religone che la porta ad essere un male.
Se con estrema ratio ci si mette ad analizzare la religione, qualsiasi, insisto, è naturale che ciò che viene a galla non può esser altro che l’artificio con cui ogni credo viene creato e l’infondatezza, l’impossibilità addirittura dei dogmi fondanti.
Detto questo poi c’è da scegliere quanto vogliamo “limitare” alla pura razionalità le nostrre scelte: cosa vuol dire questo?
Questo vuol dire che l’essere umano non può comunque fare a meno di una spiritualità, di una dose di misticismo cui appellarsi di tanto in tanto e dove rifugiare inoltre alcune necessità “dell’anima”, come paure, speranze, a volte dubbi. E’ una scappatoia che nel tempo ci è servità a spiegare il fuoco, il giorno e la notte; adesso resta se non altro a custodire il grande “perchè sono qui”.
Ad alcuni è sufficiente sapere che gli sia stato insegnato esser questa la verità. Ad altri un po’ più “dubbiosi” quello che viene chiesto è il famoso “atto di fede”.
Ed è su questo però che si regge tutta l’impalcatura identitaria che forma la nostra società, cui possiamo scegliere di conformarci, almeno in parte, o distaccarcene.
Ma le ritualità sono i momenti su cui si fonda la nostra comunità, ogni comunità.
Ritorniamo all’inizio del ragionamento, ed al nostro contesto di immediata pertinenza: sulla base di un calcolo astronomico decidiamo il momento dell’anno in cui celebrare la morte e quindi resurrezione del Dio principale della società occidentale.
Vedete che posta così tutta la questione non fa che fare acqua da tutte le parti.
Ma se dal significato ci spostiamo al significante vengono poi a galla tutte quelle ritualità che su quel momento, su quella “bugia buona”, su quell’ “atto di fede”, si reggono: l’uovo di Pasqua, l’agnello, la gita “fuori porta”.
E sono queste che hanno cotriubuito a formare quel bagaglio di esperienze e ricordi che ci ha reso noi stessi.
In un momento come questo, di sradicamento ed alienazione, dove il rischio di conformarci ed omologarci troppo, per quindi perderci, è ormai tangibile, credo che dobbiamo tener saldo il “da dove veniamo” per poter scegliere serenamente il “dove adiamo”.
Avendo di coscienza di noi stessi possiamo apprezzare l’altro, e dalle diversità nasce la ricchezza e l’opportunità del confronto, dell’incontro, e mai la motivazione di uno scontro.
Personalmente ritengo la religione qualcosa che, nell’accezione tradizionale, non possa che esser relegata ad un passato se pur prossimo e vivo.
Di contro il senso di legame comunitario penso possa esser un valore cui riferire molte delle scelte che abbiamo davanti in un momento storico come questo.

TRATTATI DI ROMA: 60 ANNI FA NASCEVA L’EUROPA UNITA – di Filippo Secciani

“… determinati a porre le fondamenta di un’unione sempre più stretta fra i popoli europei …”
Preambolo al trattato che istituisce la Comunità Economica Europea.

L’Unione europea è un’unione di diritto. Ovvero ogni azione che l’UE compie o compirà deve fondarsi sui trattati. I quali determinano gli obiettivi, definiscono le norme, descrivono le relazioni tra l’UE e gli stati che la compongono. Ma è anche un esperimento storico; non è esistita nella storia un’organizzazione internazionale simile all’Ue che indicasse questa profonda interazione tra stati; riferendoci ad essa non si può parlare di uno stato, né tantomeno di un’organizzazione internazionale in senso stretto. Tra tutti gli accordi sottoscritti nel corso della sua storia, alla base dell’Unione Europea come la conosciamo oggi ci sono i Trattati di Roma. Con ciò si è soliti fare riferimento alle due istituzioni che hanno posto le basi per la creazione dell’Europa unita. Il primo è conosciuto come il Trattato che Istituisce la Comunità Economica Europea (TCEE): come dice il nome stesso crea la Comunità Economica Europea. Il secondo istituisce la Comunità Europea per l’Energia Atomica (TCEEA). Sono stati firmati a Roma il 25 marzo 1957, mentre le ratifiche da parte degli ordinamenti nazionali li fanno entrare in vigore il 1º gennaio 1958. Il processo di unificazione europea aveva preso avvio qualche anno prima, attraverso la creazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA). Entrata in vigore nel luglio 1952, si realizza la prima idea di Europa sovranazionale, con la rinuncia da parte dei membri fondatori di una porzione della loro sovranità nazionale. Dopo il processo fallimentare per un legame europeo a livello militare attraverso la CED (Comunità Europea di Difesa, 1954), la Conferenza di Messina del giugno 1955 tenta di rilanciare il processo europeo attraverso un’ulteriore unione europea dal punto di vista economico ed energetico, per non abbandonare i successi raggiunti dalla creazione della CECA. Agli inizi del 1956 è istituito un comitato preparatorio, incaricato di stilare una relazione sulla creazione di un mercato comune europeo; i progetti partoriti dalla commissione sono: la creazione di un mercato comune e la costituzione di una comunità dell’energia atomica. Con la firma dei trattati vengono istituiti la CEE e l’Euratom. Il settore economico, inizialmente meno soggetto alle resistenze nazionali, diventa il punto di partenza per il processo di cooperazione sovranazionale. La CEEA o Euratom era caldeggiato anche dagli Stati Uniti, da un punto di vista politico perché preoccupati per i progressi sovietici nel campo dell’energia nucleare ed interessati a mantenere il vantaggio atomico nelle mani del blocco Ovest, mentre da un punto di vista economico ritenevano che l’atomo avrebbe potuto far continuare a muovere l’economia europea. Ma ancor più importante attraverso un programma nucleare comune, Washington era certa di tenere a bada la Germania. Inizialmente il programma Euratom era volto al coordinamento dei programmi di ricerca degli stati membri per un utilizzo esclusivamente pacifico dell’energia nucleare, anche se i poteri attribuiti a questo trattato erano volutamente limitati perché l’atomo era considerato una risorsa strategica dagli stati che non ne volevano cedere il controllo. Fin da subito viene mostrato uno dei maggiori paradossi europei: l’integrazione europea nasce dal settore dell’energia, senza poi svilupparsi ulteriormente su questa strada. In nessun trattato è stato attribuito un potere energetico all’Europa, almeno fino alla firma di Lisbona quando viene introdotto qualcosa di quanto più vicino possibile. La CEE prevede la creazione di un mercato comune, di un’unione doganale e l’attuazione di politiche comuni. Il mercato comune si basa su quattro pilastri o libertà: libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali. Attraverso uno spazio economico unico si permette la libera concorrenza tra le aziende, costituendo le fondamenta per uno scambio di prodotti e servizi. Poiché al centro c’è la libera concorrenza, il trattato vieta gli aiuti di stato che possono frenare gli scambi tra i membri o che rischiano di limitare la libera competizione nel mercato. Il trattato CEE abolisce i dazi doganali tra gli stati membri ed istituisce una tariffa doganale esterna comune che si sostituisce alle precedenti tariffe adottate dalle singole nazioni. L’unione doganale infine si sviluppa attraverso una politica commerciale comune, attuata non più dai singoli stati indipendentemente. Tra le politiche comuni da segnalare ci sono la Politica Agricola Comune (PAC) e Politica Commerciale Comune. L’obiettivo posto alla base della costituzione della CEE è la formazione di un graduale processo che porti ad una istituzione politica per un’Europa unita. All’interno della Comunità Economica Europea convivono due anime: gli interessi nazionali e le aspirazioni comunitarie. Per poter garantire questo equilibrium la CEE ha creato tre istituti: il Consiglio, l’Assemblea e la Commissione. Il Consiglio (l’insieme degli stati membri, ha potere legislativo), l’Assemblea (ha ruolo consultivo ed è composta anch’essa dai rappresentati degli stati, inizialmente non eletti a suffragio universale diretto. Prenderà il nome di Parlamento Europeo dal 1962), infine la Commissione (l’organo prettamente sovranazionale ed indipendente, adibito all’elaborazione di proposte, possiede il potere di iniziativa normativa volto alla tutela dell’interesse comune, esercitato attraverso l’esercizio del potere esecutivo). Infine la CEE istituisce anche la Corte di Giustizia delle Comunità Europee. I due trattati di Roma, ma in particolare modo quello che ha istituito la CEE, fu decisivo per il processo di unificazione europea. L’Europa usciva da due sanguinosi conflitti e l’obiettivo era quello di impedire che gli stati si facessero nuovamente la guerra, ma eliminare tout court il concetto di stato nazionale secondo l’equazione nazioni = conflitti era estremamente pericoloso. Il processo adottato, noto come funzionalismo, è un processo graduale di trasferimento di compiti e funzioni a istituzioni indipendenti dagli stati, la soluzione dunque fu una collaborazione settoriale. Ripensando al clima del 1945, ciò che si è riusciti ad ottenere nel 1958 è qualcosa di unico nella storia: oltre a far lavorare insieme Francia e Germania, unire le economie ed i popoli, i fondatori erano riusciti a creare il mercato che cresceva più velocemente al mondo e garantendo un lungo periodo di stabilità e pace

LA PARABOLA DEL BUONO E DEL CATTIVO PASTORE – di Fausto Jannaccone

Nella presentazione del blog a suo tempo dichiarammo che nelle nostre intenzioni c’era di portare Siena nel Mondo e viceversa il Mondo a Siena.
Questa stagione in particolare ci siamo impegnati nella fase di importazione, per dirla con termini di mercato.
Ma oggi vorrei con questo piccolo editoriale portare una piccola riflessione sulla decisione che ieri è stata presa nel locale consiglio comunale, riguardo alla soluzione dei problemi relativi alla cosiddetta “movida” notturna della città.
Come sapete io sono da sempre e chiaramente schierato in direzione di una intelligente apertura di questa città, perchè non si chiuda sempre più a riccio, rischiando poi un’irreversibile implosione da cui non potrebbe trarne giovamento nessuno. Ovviamente non può e non deve essere la “night-life” la moneta d’attrazione per una città come Siena. Ma limitarne i “canali ufficiali” a vantaggio appunto di “vie alternative” credo possa essere una delle vie più sbagliate di soluzione al problema.
Ecco quindi di seguito un breve racconto che esprima per metafore il mio personale punto di vista.

Così giunsero un sabato nella città dei pellegrini, nel nord della provicia
Grande era la folla che gremiva le strade, ed il clamore si poteva udire dalla circostante campagna
Entrati dalla grande porta nelle vecchie mura i discepoli furono investiti da quella turba di genti
La folla in tumulto urlava e si dibatteva, e sembrava che tutti si dirigessero alla piazza centrale ove aveva dimora il palazzo del potere
Allora il Maestro si rivolse ai suoi discepoli e disse loro: “Seguitemi in quell’orto di ulivi che cresce dietro al tempio ed alla grande scuola, e li vi narrerò la parabola del buon pastore e del cattivo pastore”
Una volta giunti nell’orto, sedutisi tutti i discepoli intorno a Lui, all’ombra di un vecchio ulivo, Egli cominciò la sua narrazione:

“Dovete sapere che tanto tempo fa, in una terra non distante da qui, vi era un uomo che aveva un gregge di pecore
Vi erano tra queste alcune che non rispondevano ai comandi del pastore
Esse non sottostavano alle regole, mangiavano ciò che non dovevano mangiare,
mangiavano quando non dovevano mangiare, e non mangiavano quando era tempo.
Dormivano quando era ora di pascolare e pascolavano quando era tempo di riposare.
Queste pecore ribelli destavano disturbo nel resto del gregge
Provocando insofferenza nelle pecore che invece ubbidivano e rispettavano gli orari
Dopo pochi richiami, e scarso impegno il cattivo pastore ruppe il recinto e liberò l’intero gregge
Le buone pecore finirono tutte in pasto ai lupi che popolavano la regione
Le cattive invece prosperarono selvagge e continuarono a comportarsi in modo scorretto,
Avendo quindi ragione del cattivo pastore incapace
A qualche distanza dalla casa del cattivo pastore viveva un altro uomo
Anche questo possedeva delle pecore, e come in tutti i greggi
Aveva tra le sue pecore alcune di buone ed alcune di cattive
Costui a differenza del primo pastore, con pazienza e dedizione si dedicò alle pecore cattive
Costantemente dedicava loro attenzione invece di lasciarle fare e bearsi delle buone
Continui furono i richiami, grande la cura nell’educarle e portarle sulla retta via
Dopo qualche tempo così anche quelle che erano cattive si adeguarono ad i corretti modi
E chi delle cattive pecore non lo fece fu venduta o regalata o liberata
Grande giovamento ne trasse tutto il gregge, e prosperò, crescendo in salute e moltiplicandosi
Così il buon pastore fu premiato della pazienza e della dedizione
Si arricchì e permise alla sua famiglia una vita agiata e felice
Al contrario del cattivo pastore che per incapacità e pigrizia cadde in disgrazia”
“Cosa ci insegna questa parabola maestro?” chiese uno dei discepoli.
“Ci insegna che questa città in tumulto è stata governata da un cattivo pastore,
che ha preferito prender la strada più facile e breve e rompere il recinto
Ed adesso le buone pecore sono preda dei lupi, e le cattive regnano padrone”

 

REALTA’ E PERCEZIONE DELLA PRESIDENZA OBAMA – di Filippo Secciani

L’elezione di Obama quale presidente degli Stati Uniti ha provocato fin da subito un’ondata emotiva negli Stati Uniti e nel resto del mondo. La motivazione è facilmente comprensibile: per la prima volta nella storia, un uomo di colore occupava la poltrona di comando del più potente stato al mondo. Non solo una minoranza, Obama rappresentava anche un’ideale cosmopolita di individuo, positivista, con radici multiculturali e vicino all’Islam. Obama in altre parole è stato un perfetto rappresentante dell’eccezionalissimo americano. secoba1Come se non bastasse era successore di G.W. Bush, responsabile dell’invasione dell’Afghanistan e della guerra in Iraq, delle torture e dell’unilateralismo neoconservatore. Dall’altro lato l’elezione dell’ex professore dell’università di Chicago ha contribuito ad acuire quella divisione latente all’interno della società americana tra provincia e metropoli, tra industria e servizi e tra bianchi e neri che l’elezione di Trump ha definitivamente portato a frattura, polarizzando una società che molto difficile troverà soluzione. “Tutta la sua retorica politica [di Obama], a partire dal famoso discorso della convention democratica del 2004, è stata centrata sulla necessità, e possibilità, di riportare queste due Americhe a parlare tra di loro” (Mario del Pero). Missione a quanto pare fallita. L’America di Obama è un’America profondamente differente (e quella di Trump lo sarà ancora di più). I motivi possono essere racchiusi in due macroinsiemi: il primo è il cambiamento demografico della società statunitense, in cui assume rilevanza maggiore la componente latino-ispanica della popolazione (da sempre elettorato democratico) ed il graduale processo di indebolimento della classe media americana che ha ricevuto il colpo da ko con la crisi economica del 2008. Forte del consenso dei liberal e degli “emarginati” Obama ha incentrato la sua politica verso una maggiore inclusione sociale, investendo buona parte della sua amministrazione verso l’ampliamento dei diritti civili e sociali (unioni gay, salario uguale per uomini e donne, lotta alle disuguaglianze, tutela delle minoranze, sanità pubblica) i cui risultati sono parzialmente stati raggiunti e superati, ma mettendo da parte, o nel peggiore dei casi escludendo totalmente, i bianchi impoveriti e colpiti dalla crisi economica e dal processo di de industrializzazione degli Stati Uniti, in quella che lo storico della Columbia University Mark Lilla definisce la fine del “liberalismo identitario” e provocando una forte reazione negativa tra le frange più dure dell’elettorato repubblicano. Cioè l’agire progressista e liberal per la tutela quasi esclusiva della diversità culturale, religiosa e razziale all’interno degli USA, finendo per favorire identità separate, a scapito di un comune interesse di tutti gli americani verso politiche economiche e sociali universaliste. Non è un caso che la popolarità di Obama fosse maggiore al di fuori degli Stati Uniti, specialmente in Europa e nel continente africano. Questa sorprendente fiducia nell’opinione pubblica europea verso Obama si manifesta anche nelle sue scelte di politica internazionale (nel 2016 l’80% degli europei ha fiducia nella politica estera di Obama – Pew Research Center). Tutto ciò nonostante le Primavere Arabe, la Libia, il disimpegno dall’Afghanistan, l’Isis, la crisi siriana e la Russia al centro del Medio Oriente. Esperti e studiosi di relazioni internazionali hanno accusato Obama di non aver avuto una strategia efficace ed una linea chiara da perseguire, “di non avere, in altre parole, quella necessaria e dottrinale grand strategy sempre elaborata invece dalle amministrazioni statunitensi del dopoguerra.” (Mario del Pero). Va anche riconosciuto che gli ultimi due anni e mezzo della sua amministrazione sono stati caratterizzati da una maggioranza repubblicana al Congresso (anatra zoppa) che ha fatto dell’ostruzionismo una prassi regolare per combattere le iniziative legislative. Obama ha dovuto anche guardarsi dal suo stesso partito, frammentato al suo interno in più fazioni e per certi versi ostile alla sua nomina, al quale lui ha cercato di porre rimedio nominando la sua acerrima nemica Hillary Clinton alla carica di Segretario di Stato. Soluzione che ha pagato sul breve, ma che alla lunga ha accentuato questo conflitto interno, specie in seguito alle scelte di politica estera di questa amministrazione, nel corso del secondo mandato. secobaAd Obama è stato spesso fatto notare di agire in maniera troppo soft in questioni di politica internazionale (anche per un presidente democratico) e di aver gestito le questioni estere in funzione di un tornaconto in politica interna. Questa sua “debolezza” nell’operare a livello internazionale è una delle cause minori della sconfitta democratica della Clinton alle ultime elezioni presidenziali. A fronte di un’iniziale apertura con Mosca (politica del reset), la questione ucraina ha evidenziato la mancanza di una strategia americana, rimasta in qualche modo sopraffatta dall’azione dirompente russa. Non è stata migliore l’azione intrapresa in Medio Oriente. La scelta all’interno della crisi siriana è stata quella di finanziare le forze di opposizione di Assad, molto spesso islamiste ed estremisti islamici, salvo poi dover impegnare forze sul terreno per arginare l’asse Iran-Russia, che ha costretto a mutare radicalmente le scelte obamiane per la Siria: da un desiderio di eliminare Assad dalla scena politica siriana (forse anche fisicamente) l’ultimo periodo della sua presidenza è stato segnato da un cambio di rotta in questa decisione. Allo stesso modo l’Iraq ha visto un’iniziale decisione di adottare un basso profilo, se non di deciso disinteresse, salvo poi dover far marcia indietro ed intraprendere misure più efficaci nella lotta all’Isis. I teorici del declinismo americano, sostengono che chi faccia largo utilizzo dell’apparato militare per il mantenimento dell’ordine, non abbia nessun tipo di controllo. Egemonia significa intrinsecamente non fare ricorso alla armi. Viceversa per quanto riguarda Obama, il non ricorso alle armi – se non quando fosse troppo tardi – ed il non immischiarsi in questioni esterne ha indicato un generale indebolimento dell’egemonia americana, contrariamente al rischio di overstretching della presidenza Bush. Per garantire la propria supremazia Obama ha fatto un largo utilizzo di tecnologia e di droni, arrivando anche a bombardare paesi formalmente alleati e non in guerra come Filippine e Pakistan (soprattutto la regione del Waziristan). Un buon risultato è stato ottenuto da questa amministrazione per quanto riguarda la sua politica verso il Pacifico ed in particolare nei confronti della Cina: la creazione del TPP (Trans Pacific Partnership) ha contribuito a delimitare l’avanzamento economico dell’ex impero celeste nella regione, rispecchiando appieno quel pivot to Asia cavallo di battaglia del Segretario di Stato Hillary Clinton prima e John Kerry dopo. Il TPP escludeva la Cina da accordi commerciali tra i partner regionali di una zona in cui transitano il 50% degli scambi commerciali mondiali e al contempo rafforza politicamente il Giappone ed in misura minore la Corea del Sud in funzione anti Pechino. Il PCC per rispondere a questa iniziativa occidentale, ha promosso dal 2013 la costruzione della Nuova Via della Seta (One-Belt-One-Road) per rafforzare gli scambi economici con Asia Centro-meridionale ed Europa. Per conclude possiamo riassumere la figura di questo presidente attraverso due parole: percezione e realtà sono state le dinamiche della politica di Obama.17035351_1252161311519765_1755848394_n La percezione della sua persona e della sua personalità, con la realtà delle sue politiche. La percezione è stato lo storico discorso del 2008 all’università del Cairo, rivolto al mondo musulmano, la realtà è il caos che regna nel Medio Oriente. Sulla carta un’abile utilizzo di una retorica assai lontana dalla tradizione statunitense di interventismo ed internazionalismo delle precedenti amministrazioni, ma nella realtà un ricorso allo strumento militare tale e quale al passato.

LA ROSSA, LA GRASSA, L’UNIVERSALE- di Viola Lapisti

“[…] Oh quanto eravamo poetici, ma senza
pudore e paura
e i vecchi “imberiaghi” sembravano la letteratura…
Oh quanto eravam tutti artistici, ma senza
pudore e vergogna
cullati fra i portici cosce di mamma
Bologna…[…]”
Bologna – Francesco Guccini.

Avevo circa otto anni quando ci sono stata per la prima volta, mi ricordo che il mio babbo mi raccontava che in quelle vie aveva vissuto il servizio militare e la rivolta studentesca del sessantotto, bandiera rossa, bella ciao ed i cori sui carri di Lotta Continua. In quegli anni ho conosciuto le canzoni di De André e quelle di Guccini, anche se non capivo ancora bene che cosa volessero dire quelle parole. Sapevo a mala pena intuire quando nelle canzoni si parlava d’amore. Mi sembrava un luogo tanto lontano e immenso rispetto alla mia città straordinario, caotico ma degno del più reverenziale rispetto.

Ci sono tornata dieci anni dopo, era il 3 dicembre 2004, stavo andando a vedere un Concerto di Guccini, che poi ho saputo essere stato il suo ultimo concerto in quella città, prima che decidesse di dare l’addio al palco. Quelle parole che da piccola ascoltavo dal mangianastri di babbo, adesso le conoscevo a memoria. Ero emozionata, mi sembrava di essere sul set cinematografico del mio beniamino, ora che anche io calpestavo le vie cantate nei suoi testi.

Ci sono tornata e rimbalzata altre volte, perfino a cercare dei testi per la bibliografia della tesi, in Via Zamboni 36.

Qualche anno dopo, anche Sara, avrebbe calpestato il marmo sotto a quei portici e avrebbe iniziato il suo viaggio. Bologna sarebbe diventata la sua città, il luogo dove avrebbe vissuto, fino ad oggi, gli anni più belli della sua vita.

Ho conosciuto Sara al Liceo. Io avevo ventitré anni e lei quindici. Io ero una ex liceale che dava una mano per la Commedia, lei una giovane liceale che sivergognava a recitare, ma quando recitava era bravissima. Roberto Ricci, il regista, diceva che Sara aveva una dote innata. La sua bravura, mentre recitava, era manifesta anche all’occhio meno esperto perché la sua bellezza,oltre ad avere una disinvoltura non comune sul palcoscenico, nasceva soprattutto dal fatto che Sara era totalmente inconsapevole del suo talento.

Sara era ed è una ragazza determinata e piena di talenti, da piccola voleva fare il magistrato. Al Liceo le piaceva studiare Storia dell’Arte. Oggi, vive a Copenaghen e tra qualche mese partirà per Calcutta.
Quando le ho chiesto se sarebbe stata disposta a raccontarmi un po’ di sé e da rispondere a qualche domanda per questo articolo, non ha esitato un istante e la ringrazio. Le ho detto che in questo articolo si sarebbe parlato di Bologna, e di ciò che la città ed il suo Ateneo sta vivendo nelle ultime ore. Sapevo che questo argomento la stava toccando da vicino, che probabilmente stava tormentando il suo fianco scoperto, lei che considera Bologna la sua seconda casa ed il sentimento che prova nei suoi confronti “è simile a quello che si prova per una mamma, applicato ad una città”.
Sara a Copenaghen lavora e sta frequentando un master, nonostante questo in meno di ventiquattrore ha trovato il tempo per rispondere alle domande che leggerete. Le ho detto che volevo capire, che le notizie che ci stanno arrivando sono rarefatte e che, in questi casi, il confine tra la strumentalizzazione e la verità è labile. Le ho chiesto quale fosse la sua opinione, lei che ha vissuto in prima persona l’ambiente e che ne ha respirato il clima. Senese di nascita, ma bolognese di adozione
Presentati. Chi è oggi Sara Nardi?
Sono una giovane donna, energica e molto determinata. Al momento studio alla Copenhagen Business School e lavoro part time a Eataly. Ho studiato per tre anni all’Università di Bologna, il periodo più bello della mia vita. Frequentavo un corso internazionale, Business and Economics, insegnato in lingua inglese. I miei colleghi venivano davvero da tutto il mondo. Per il master sono voluta andare all’Estero per sfruttare al meglio l’internazionalità che la triennale mi aveva dato. Nel frattempo già avevo fatto uno scambio di sei mesi a Buenos Aires e il prossimo settembre partirò per un altro scambio di sei mesi in India. Mi sento cittadina del mondo ormai, ed è una bellissima sensazione
Il tuo colore preferito
Nero, sta bene praticamente con tutto, non passa mai di moda, ed è la somma di tutti I colori messi insieme.
Dopo la maturità hai scelto Bologna. Come mai proprio questa tra tutte le città del panorama universitario italiano?
Le esperienze all’Estero che avevo fatto durante il liceo mi avevano sempre entusiasmato, ma non mi sentivo ancora pronta per fare l’Università fuori, però volevo studiare in inglese. Il corso di Business e Economics in inglese c’era solo in poche altre università pubbliche italiane e Bologna era l’Ateneo che mi interessava di più. Ne avevo sempre sentito parlare benissimo.
L’ Offerta formativa è stata dunque all’altezza delle tue aspettative?
Le ha superate, devo dire. L’insegnamento all’avanguardia, I corsi ricchi di contenuti e I professori molto validi e qualificati. L’ottica del mio corso era molto internazionale, l’equilibrio tra esami più tradizionali (individuali) e lavori o esami di gruppo era ottimo. L’Università di Bologna mi ha arricchito tantissimo sia dal punto di vista accademico sia personale.
vio2Il più bel ricordo di Bologna (ed anche il più brutto, se ne hai)
Ho la testa piena di bei ricordi e belle sensazioni. Bologna complessivamente è tutta un bel ricordo per me. Dai ragazzi seduti in cerchio a suonare sul prato dei Giardini Margherita, alle colazioni primaverili in Piazza Santo Stefano, le camminate sui colli nelle giornate di sole, il buon caffé con lo sconto studenti alla Scuderia.
Mi ricordo che prima partire per il mio ultimo semestre a Buenos Aires, presa dalla tristezza di lasciare Bologna, spesso dopo cena andavo in giro a camminare per le vie della città che amo di più. Per godermela da sola, anche in silenzio.
Il ricordo più brutto è quando un sabato sera d’estate un gruppo di ragazzi loschi, quelli che occupano il portico sotto il teatro comunale mi seguì in bicicletta mentre io ero sola a piedi. Era tardi e stavo tornando da una serata tra amici. Appena hanno iniziato a farmi domande inopportune, ho cambiato strada e hanno continuato a seguirmi, allora ho iniziato a correre verso un taxi e mi sono fatta riportare a casa. Anche se era una distanza che avrei potuto benissimo percorrere a piedi in 5 minuti. Queste cose non dovrebbero mai succedere.
Bologna, fin dalla rivolta studentesca del ’68, è da sempre lo specchio rivoluzionario della gioventù universitaria di questo paese. Il particolare per l’universale. Qual è, secondo te, la differenza tra la Bologna sessantottina cantata da Guccini e la Bologna di oggi?
Onestamente dello spirito sessantottino ci vedo poco adesso.
Chiaramente non essendoci stata al tempo non posso paragonare, ma le rivoluzioni universitarie che ho visto io a Bologna mi sembrano solamente una scusa per fare casino, spesso chi è a capo delle proteste e/o manifestazioni si esprime in un italiano a dir poco pessimo, schiamazzando al megafono frasi spesso senza significato che, per come la vedo io, rivelano la mancanza di un piano e di vere convinzioni. Non mi sembra ci sia proprio nessuna continuità con la rivolta studentesca del ’68. Spesso adesso le occupazioni delle aule sfociano in atti violenti o vandalici. Gli edifici storici che noi studenti dovremmo tanto amare vengono imbrattati sia fuori che dentro.
Come hai vissuto, da studentessa universitaria, il forte radicamento del movimento studentesco, diciamo quasi identitario, di Bologna stessa?
Ho sempre cercato di starne alla larga vivendomi Bologna nelle cose più belle che ha da offrire: le iniziative culturali e artistiche, l’atmosfera internazionale e giovanile, l’opportunità di studiare in aule storiche e bellissime.
Per me ci sono tanti modi di fare informazione e protesta pacificamente, per esempio organizzando dibattiti interdisciplinari, mettendo insieme idee di studenti motivati e competenti. Purtroppo sono abbastanza diffidente nei confronti dei movimenti studenteschi bolognesi perché ho visto in prima persona come le idee che ne stanno alla base siano strumentalizzate e come le manifestazioni in questi anni siano degenerate nella violenza e nel degrado che rovinano la zona universitaria
Il CUA. La prima cosa che ti viene in mente
Probabilmente la mia risposta è falsata da pregiudizi, ma basti pensare che la loro pagina web è piena di articoli verbalmente violenti, la loro foto di copertina su Facebook è un murales terribile che imbratta un muro della mia biblioteca preferita dove andavo a studiare. Questo è quello che mi viene in mente.
Viene chiamata “la rivolta dei tornelli”, quella delle ultime settimane, iniziata con la decisione di installare tornelli all’ingresso della biblioteca di Lettere al civico 36 di via Zamboni, decisione presa dall’Ateneo su richiesta degli stessi lavoratori della biblioteca. Cosa ne pensi e come vivi da Copenaghen questi scontri.
I tornelli sono SACROSANTI! Zamboni 36 è un posto dove io stessa ho studiato, ma spesso è un covo di spacciatori, sicuramente non sicuro. I tornelli arginano solo parzialmente il problema di infiltrazioni di gente poco raccomandabile all’interno di locali universitari, visto che in alcuni casi alcuni studenti stessi sono spacciatori, ma quantomeno proibisce l’accesso a chi non è studente e quindi non ha il badge. È una misura di sicurezza necessaria. Purtroppo anche nei locali della Facoltà di Economia, prima entravano non-studenti che, si è scoperto, hanno rubato telefoni e computer.
Adesso l’accesso è regolato anche a Economia. Mi sembra giusto che questo sistema sia stato introdotto anche a Lettere.
Da qua inorridisco di fronte alla violenza da parte di tutti, polizia compresa. È inammissibile. Inorridisco di fronte alle proteste per tale provvedimento. Non mi sembra davvero che ci sia alcuna scusa a cui appigliarsi per sostenere che non sia un buon provvedimento, vista la situazione critica della biblioteca e della zona universitaria in generale. Da Copenhagen mi viene solo tanta tristezza e rabbia. Non so come si possa maltrattare così la città che da sempre accoglie tutti e li fa sentire a casa.
Il CUA smentisce le versioni e le ricostruzioni del personale e degli studenti, in particolare il racconto di Emilia Garuti (studentessa di Lettere e membro della Segreteria regionale del Pd di Rolo). Cosa ne pensi delle dichiarazioni rilasciate da Emilia? Pensi che in questa fase, entrambe le parti stiano strumentalizzando la protesta?
Emilia Garuti mi trova d’accordissimo, non stento a credere ai suoi racconti dal momento che io ho visto e vissuto cose molto simili sia ad Economia sia, appunto, proprio fuori da Lettere, sotto i portici, quando ho sentito che un tizio, chiaramente non studente e a me sconosciuto, mi frugava nella tasca esterna dello zaino in pieno giorno. Credo che Emilia non abbia strumentalizzato proprio niente, racconta I fatti come stanno. Però le sue verità risultano scomode, quindi si sente la necessità di smentirla ed offenderla perché proprio le sue verità intaccano gli interessi di quelli che la smentiscono. In piccolo mi ricorda un po’ la figura di Roberto Saviano (Emilia)e di tutti quelli (CUA) che si accaniscono contro di lui sostenendo che strumentalizza la questione mafia.
vio1Cosa può fare oggi uno studente dell’Ateneo per Bologna?
Farsi cullare “fra I portici cosce di mamma Bologna”, andare a scambiarsi idee pacificamente e in allegria davanti a un buon vino all’Osteria del Sole, godersi spensieratamente gli anni più belli di quando si è studenti e si conosce almeno una nuova persona interessante al giorno. Frequentare locali tandem, dove si può mettere a disposizione la propria lingua italiana per insegnarla agli studenti in Erasmus e nel frattempo imparare una nuova lingua da loro. Seminare la conoscenza e la cultura che sono poi i presupposti della pace.
Inoltre, i professori sono una risorsa inestimabile. Sono convinta che alcuni di loro vorrebbero essere coinvolti nell’organizzazione di dibattiti interdisciplinari,quelli che ho menzionato anche prima, o eventi culturali di formazione extracurricolare.
Sara e Bologna. Qual è e qual è stato il vostro rapporto? Quanto c’è di Bologna nella Sara di oggi?
Lo è stato e lo è tuttora: un rapporto simbiotico. Quando torno da Copenhagen ancora prima di tornare a Siena, torno a Bologna. In realtà sento come se Bologna fosse la mia vera casa. “Mamma Bologna” come dice Guccini. Mi ricordo che l’unica volta che sono tornata direttamente a casa avevo un cambio di treno a Bologna, solo 5 minuti. Anche solo vedendo la stazione mi sono emozionata. Ovunque mi trovi, ovunque vada, anche lontano me la porto sempre con me, insieme a tutte le persone che hanno fatto parte della mia vita e dei ricordi di quegli anni. La mia migliore amica, i miei colleghi e amici, che adesso sono sparsi in giro per il mondo, il tabaccaio, il mercato delle Erbe e quello della Terra. Le sessioni di esami estenuanti ed i festeggiamenti tutti in compagnia, e i piani per il futuro. Che nostalgia…
Sara oggi è diventata grande, non vuole più fare il magistrato, ma non ha abbandonato la sua sensibilità verso il senso sociale e universale di giustizia. Vorrebbe lavorare nell’ambito dell’imprenditoria sociale. Ha il sogno di cercare di sollevare le popolazioni in crisi, sfruttate da secoli di governi autoritari e da secoli di nocivi sistemi economici capitalisti, con l’ambizione di portare nei loro paesi un modello di industria collettiva e sostenibile. Per questo ha scelto l’India, per questo tra poco partirà per Calcutta.

"L'uomo prima è meravigliato, poi si muove." (F. Hadjadj)

Mira, Milano

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