Ogni mattina un palestinese si sveglia, diciamo alle tre, e sa che dovrà correre più veloce del suo vicino se vorrà evitare tre, anche quattro, ore di fila al checkpoint. Ogni mattina il suo vicino si sveglia, e sa che dovrà correre più veloce di quello di cui sopra, per lo stesso, identico motivo.
Ne sorte che a Betlemme non importa che tu sia uno o l’altro, tanto se sei tra i pochi che lavorano dall’altra parte devi alzarti presto comunque, e correre.
Se si vuol assistere alla psico-mattanza, bisogna comunque aver rispetto, delle persone, senza travisarle come bestie da zoo. No flash, esclamazione ben nota ai senesi, niente domande travestite da pietosa religiosità come fanno alcuni, serve documentare, non compatire, se non nel senso originario e nobile del termine, cum patior, patire insieme.
Non c’è ripresa economica: il Muro ha fatto strage e pulito dell’economia palestinese. Come diceva Claire, prima la vetrina del suo negozio dava sulla strada principale. Adesso domina otto passi stecchiti, dal marciapiede al muro. E non è un caso isolato. Si tratta semmai di un insieme di casi isolati sì, ma dal resto del mondo. I pochi che adesso hanno un lavoro, lo svolgono spesso di là: ciò significa che, ogni notte un Mitri (nome cristiano, da queste parti) qualunque si sveglia alle tre, si veste con gli occhi pieni di sonno e si beve di straforo, nel caso, un caffè di rara fondata.
Dopodiché passa il taxi, solitamente un pulmino giallo da nove, e lo carica insieme ad altri dodici, tredici compagni di sventura. La corsa è breve e frenetica, il tempo sempre di meno.
Lungo l’unica strada che porta al checkpoint è dominata, da un lato, da una fila di bancarelle. Pita, dolci, pane al sesamo, biscotti, tè, caffè e acqua: molti fanno rifornimento prima di mettersi in fila.
«Tourists? Want coffe? Tea? I tell you what happens».
L’inglese è forse approssimativo, ma per certo chiaro. Lui è Said e qualcosa, vuole parlare, vede chiara l’occasione di vendere qualche bicchiere colmo in più del solito, nonché l’appiglio di far conoscere qualcosa che, nei rugginosi ingranaggi della burocrazia israeliana, forse sfugge.
E parla, a ruota libera e quasi a memoria. Ogni notte è la stessa storia: qualche centinaio di disperati, costretti all’umiliante fila ai tornelli solo per andare a lavorare da chi garantisce loro tasse ma non diritti, obblighi e non libertà.
E sarebbero da vedere, solo per carpire sino in fondo l’assurdità nel suo genere. I furgoncini sbandano nel dritto, rischian di cozzare più volte: appena frenano escono a pioggia i mestieranti, poveri e dignitosi ma mezzadri del nulla più assoluto.
A pochi metri dal carretto di Said inizia il passaggio più pietoso. A ridosso del muro, sormontato dalla lapalissiana scritta entrance in ben tre lingue, inizia un tunnel calustrofobico fatto di sbarre, come le rampe dei vecchi flipper a gettoni che ti riportavano la pallina all’inizio, solo in scala da esseri umani, o quasi. Il senso del resto, è lo stesso: questa gente, da anni viene sballottata in questo agghiacciante flipper sociopolitico, i punti diminuiscono, le vite idem.
Il tunnel dura quasi un centinaio di metri. Dopo una decina inizia quello riservato ai turisti ed ai semi-privilegiati dotati del permesso medico. Su un lato, oscillando sotto il peso di un enorme ibriq, la caffettiera araba, passeggia ossessivamente un uomo, che fornisce gli ultimi generi di conforto prima dell’odioso controllo. L’attesa, agli occhi dei profani, pare infinita ed alienante, sotto la luce alogena dei molti fari puntati sui pericolosi mestieranti di cui sopra.
Il gruppo si scinde: alcuni, per un malmesso spirito di compassione catto-pacifista, decidono di condividere la sorte degli sventurati, seguendoli in fila nell’angusto tunnel, togliendo metri preziosi ai comprensibili ritardatari. Bontà loro.
Noialtri, dopo quaranta minuti di notturno orrore squallido ce ne torniamo a casa. Documentare e parlarne, dire e diffondere, senza invasivismi di sorta.